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Tutte le cose che non sono te

Chissà cosa ci spinge ad associare momenti della nostra vita all’accumulo di determinati oggetti.
Da piccola amavo le cartolerie. Girare tra scaffali di quaderni, matite, gomme da cancellare, cartelline mi faceva sentire in pace con il mondo. L’odore della carta, così confortante, come ogni volta che entri in una libreria e sai che sei circondato da buona compagnia.

Pochi giorni prima di iniziare la scuola, mia madre ci portava da Amodio a Port’alba per comprare diari, astucci, penne e tutte le armi che ci sarebbero servite per affrontare classe, insegnanti e materie. Lo zaino no. Ché ho avuto lo stesso Jolly Pro dalla prima media alla quinta superiore, trattato con rispetto, conservato come un cimelio.

Era bello. Perdevo la cognizione del tempo. Amavo soprattutto l’idea che la maggior parte di quegli oggetti avrebbe scandito il tempo che passava: smemorande che segnavano i giorni che mancavano al Natale, le matite da temperare fino al mozzicone, le gomme da cancellare che si consumavano piano. Finire le cose. Esaurire l’inchiostro delle Bic, scrivere fino all’ultima pagina dei quadernoni. Non so spiegarlo. Mi faceva stare bene.

Quando è arrivata l’adolescenza e sono stata portata a Padova, mio malgrado, ho iniziato ad amare le profumerie. I rossetti scuri, lo smalto, gli ombretti viola. Provare sul dorso mano le tonalità. Spruzzarsi profumi da uomo per sentirsi più trasgressive. Rubare i tester dei prodotti troppo cari. Andare con le amiche a cercare di mascherare il disagio di crescere.

E poi il periodo dei CD, il periodo dei braccialetti etnici, quello dei libri delle edizioni ES e quello delle scarpe.

Stamattina leggevo un articolo che spiegava che l’età adulta non esiste più. Siamo abituati a sentirci giovani fino a quando non diventiamo anziani. Posticipiamo il tempo delle responsabilità. Facciamo figli quasi fuori tempo massimo. Restiamo a casa dei genitori a lungo, a volte per necessità, molto più spesso per scelta. Un governo di cui l’età media è 47 anni è considerato un governo “giovane”. A 40 anni sei un ragazzo. A 50 sei giovane. Dovrebbe consolarci, l’allungamento di una presunta età dell’oro. E invece no. Dall’età infinita della minigonna alla menopausa, senza soste intermedie. Traumatico. Deleterio.

Io invece sono diventata adulta. Me ne sono accorta quando ho smesso alzare la voce. Quando durante uno scontro mi fermo e lascio perdere. “Come ti pare”. Quando ho capito che molti dei miei errori non dipendono dagli altri. Quando mi sono resa conto dei miei limiti. Quando ho capito che non sempre ce la posso fare da sola.

Sono diventata adulta quando ho iniziato ad accumulare tazze. Prese in viaggio, scelte con cura all’Ikea, fatte personalizzare con foto o scritte simpatiche, comprate ai festival, con la data che ricorda “io c’ero”. E quando, finita la convivenza, sono tornata a vivere da sola, ho cominciato a bere una moka da due intera, ho accantonato le tazzine e ho iniziato a usare solo tazze. Ho la mia preferita da caffè, che non metto in lavastoviglie e lavo sempre a mano. Ho quelle da tisana, quelle per i cereali, quelle che non uso spesso perché la forma o lo spessore non mi piacciono, quelle in cui offro il tè agli amici.
Ho due ripiani della cucina strapieni di tazze. E quando ne vedo qualcuna in un negozio di casalinghi, magari color malva o con una forma strana o con il manico buffo o di un materiale nuovo, devo fare uno sforzo per non acquistarla.

L’età della responsabilità è quella delle tazze.

Ho imparato a rinunciare agli oggetti quando ho dovuto affrontare grossi lutti. E tutti i traslochi. Le cose non ti danno un’identità. Pensare che un oggetto possa essere la forma di un ricordo, spesso, non sempre, ma spesso ti fa dimenticare che la memoria ti seguirà nel mondo senza bisogno di materia. Tu non diventerai quello che lasci e quello che lasci non sostituirà mai te. Sei solo quello che riesci a portarti sempre dietro, compresi affetti, dolori, gusti, idee, affanni, sorrisi.

Poche cose sono con me da tanto tempo. La maggior parte si sono fermate nei vecchi appartamenti, a casa di mia madre, da qualche amico, in garage, nelle stanze di qualcuno che le ha ricomprate. Ogni vita nuova aveva oggetti nuovi, che diventavano ricordi nuovi a cui non affezionarsi troppo.

Per fuggire lontano o ricominciare, ancora e ancora, serve viaggiare leggeri. Non esiste nulla a cui non si può rinunciare. Esistono solo persone e luoghi di cui hai davvero bisogno.

Stamattina, mentre lavavo la mia tazza preferita, quella rossa di quel festival lì, ho quasi rischiato di farla cadere e per un momento mi è mancato il fiato. L’ho afferrata al volo. Intonsa. L’ho riposta con cura ad asciugare e ho capito che non è tempo di ripartire, anche se in questi giorni lo farei, infilerei le scarpe comode e correrei via senza fermarmi mai.

Non è ora di lasciare tutte le tazze.

Forse non lo sarà mai più.

Smettere di scappare è l’età adulta.

Anche se gli psicologi dicono che non esiste più.

 

Da oggi metto la testa a posto

A cena, un paio di sere fa, circondate dai gatti, dall’afa e dal magico profumo estivo dello zampirone, Elena e io discutevamo con degli amici del perché dei nostri continui fallimenti amorosi.

Elena è generosa, comprensiva, presente, allegra, espansiva e materna. Non gliene va bene una. Le dicono che è perché è troppo disponibile e, finché non inizierà a farsi inseguire, non troverà mai la persona giusta.

Io sono riservata, dura, cerebrale, pigra, esigente e ironica. Non me ne va bene una. Mi dicono che è perché sono troppo forte e, finché non inizierò a inseguire, non troverò mai la persona giusta.

Poi siamo salite in moto e siamo andate allo Sherwood Festival a mescolarci tra i giovani più giovani di noi, sperando di sentirci meno adulte.

“Secondo te, è vero che sono troppo disponibile?”.

“No. Secondo me è una balla. Non è sbagliato quello che facciamo, è solo una questione di fortuna. Ci vuole fortuna perché le due metà della mela combacino. E ci vuole pazienza. E ci vuole coraggio ad accettare compromessi. E ci vuole forza, ma una grandissima forza, a lasciare andare le persone che non ci vogliono, anche se sono il grande amore, anche se come loro nessuno mai”.

“Allora, che si fa?”

“Boh, io prendo un’altra birra”

“Io bevo troppo. Non ho mica più l’età!”

“Non ti preoccupare. Non lo dirò a nessuno. Questa sera siamo di nuovo noi due di quasi vent’anni fa”.

Anche se al posto del Sì, siamo venute in Ducati. Anche se abbiamo più di cinquemila lire in tasca. Anche se la scuola per noi è già finita da un pezzo. Anche se abbiamo già scoperto che essere grandi non è poi così semplice. Anche se domani ci sveglieremo con un gran cerchio alla testa e ci ripeteremo, convinte, questa volta è l’ultima, da oggi metto la testa a posto.

È tutto. Anzi, no.

Il blog è migrato (finalmente) sul nuovo server.
Ringrazio tanto, tanto, tantissimo Andrea Beggi per il prezioso aiuto tecnico. Un giorno, questo salvatore del wordpress verrà ricordato nei libri di storia.

Tra qualche giorno partirà il Dania World Tour: 8 febbraio a Roma, 9 a Padova, dal 10 al 13 a Parigi, 14 e 15 a Roma, dal 16 al 18 a Padova, brevissima sosta a Milano e partenza il 19 febbraio per il Brasile, con rientro a Milano il 6 marzo.

Mi scuso con i creditori e, soprattutto, con la mia meravigliosa editor (sì, sto cercando di blandirti) per i ritardi che accumulerò.

Fatemi un fischio se la situazione in Italia precipita. Potrei decidere di restare nel Maranhão.

È tutto.

Anzi, no: l’amore è una cosa faticosissima. E fa bruciare molte meno calorie del Body Pump. Non sono mica sicura che ne valga la pena.

Allora vivo

Ho usato un sacco di metafore per raccontare quello che mi è successo nell’ultimo anno. Ho scritto tantissimo, ma proprio tanto, su me stessa, i miei sentimenti, le paure, le ansie, le attese, i ricordi, i progetti, le speranze.

Il blog è un diario, è una pagina bianca in cui metti te stesso, ma per me non era mai stato così. Era una vetrina per Dania, per i suoi pensieri sulla satira, sul precariato, sul sesso, sugli uomini.

Il 24 aprile 2011 è il giorno in cui sono morta. È una data che segna un prima e un dopo. È una data che alla fine ho scelto, dopo mesi in cui sbattevo la testa contro i muri, digiunavo, piangevo sempre, sempre, non parlavo mai o parlavo troppo, ero chiusa in una casa con un silenzio assordante. È la data in cui non ce l’ho fatta più e ho deciso che non potevo essere ancora io.

È passato un anno e mi sono successe molte cose, belle e brutte, piccole e enormi, crudeli e dolci. Ho scritto un libro sull’amore, in gran parte raccontando quello che avrei voluto dicessero a me, ho lavorato in TV, pur non avendo età e aspetto televisivi, ed è stata una bellissima esperienza. Ho girato l’Italia con Stiletto Academy, ho conosciuto amiche che adesso sento tutti i giorni e delle quali non potrei più fare a meno. Sono stata insultata, presa in giro, allontanata dagli amici. Sono stata ferita, in modi meschini, sono stata fregata (e qui parlo -ahimé- di soldi), usata, abbandonata ancora e ancora. Nei periodi in cui sei fragile ci sono due tipi di persone che ti stanno accanto: quelli che fanno di tutto per sorreggerti e quelli che fanno di tutto per affossarti. Succede per tutti. Io avevo anche questo enorme sfogo dei Social Network e Dania si è messa da parte ed è arrivata Daniela, e mentre Dania non sbagliava un colpo, Daniela ha fatto e detto cose imperfette, come me.

A un certo punto è finita una storia d’amore e ci ho messo del tempo per superarla. È passato qualche altro uomo, ma poi non si è fermato. Poi ho fatto le valigie, ho chiuso la casa a Padova, ricomprata a fatica, e sono venuta a stare a Milano.

Milano ha il grande vantaggio di non farti mai sentire estraneo. A Roma, a Napoli, se non sei nato lì non ti sentirai mai completamente del posto, mentre Milano è democratica, dà la cittadinanza a tutti. Sei di casa non appena hai i tuoi posti, quando vivi tutta la tua vita nel quartierino, quando eviti la corsa in via Torino o al Duomo nei giorni di punta, quando passi le serate in osteria in Porta Romana, quando conosci a memoria le linee della metro.

Allora mi sono trasferita qui e non è sempre bello. A volte ci sono gli amici, gli amanti, i parenti, le cose da fare, da vedere. Altre volte sei sola con te stessa e il gatto e vorresti scappare lontano, magari vedere il mare, salpare su un cargo battente bandiera liberiana e non tornare più.

Adesso vivo di espedienti, ho pochi lavori, pochissimi soldi, qualcosa da scrivere, un affitto, una coinquilina, solo amici a cui voglio bene, qualche uomo di passaggio e mai troppo giusto, qualche progetto che non ho la grinta di portare avanti, il mio blog.

Sono morta un anno fa e adesso un po’ rinasco, mi alleno, cambio pettinatura ogni due mesi, imparo a sorridere, non racconto più a nessuno i fatti miei, quando mi feriscono riparo con il cabernet, ho una terribile paura nel futuro, ma dicono che significa essere vivi. Allora vivo.

La luce che arriva da est

Sono tornata a casa, che era la nostra e non lo è più.

Ho aperto le finestre, ho fatto entrare la luce. Mia madre era passata a pulire e a curare le piante che nessuno cura più.

Ho acceso il riscaldamento, mi sono infilata in doccia. Ho indossato uno dei tuoi maglioni abbandonati. Ho mangiato dei biscotti che erano qui da mesi.

La casa è silenziosa, non c’è più il gatto. È così vuota di persone e così piena di ricordi. È bella e triste. Così triste che mi somiglia.

Devo liberarmi di questa casa e non ci riesco. Mi sveglio durante la notte e mi sento bene e poi sola e poi di nuovo bene.

A volte penso a chi potrebbe viverla, come sarà quando porterò via le mie cose, chi riempirà la cabina armadio, chi userà la mia vasca da bagno, chi accenderà il camino che noi non accendevamo mai.

Mi viene spesso in mente quel titolo del libro di Hrabal, Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare, e penso che bisognerà iniziare a mettere in vendita il passato. Eppure non ci riesco. Passo il tempo a lavorare e lavorare e lavorare per pagare mutuo e affitto a Milano. Eppure non ci riesco.

Ci sono cose e case che si fa fatica ad abbandonare. Anche per chi è nomade come me.

C’è un grande silenzio e il parquet scuro e fuori piove e mi sembra di poter tornare indietro e di poter restare e non partire più. Devo sbarazzarmi di un posto che era casa e sentirmi di nuovo a casa altrove. Poi ci saranno altri appartamenti, altre città, altri racconti e libri e pagine e amori piccoli e scatoloni e viaggi in macchina e treni e ricordi che puoi mettere in valigia e tetti sotto cui essere felice e cucine da riempire con il profumo dei dolci appena sfornati e io che non so più dove stare, che resto ovunque e da nessuna parte, che sono come una casa senza inquilino, con le pareti rosse e la luce che arriva da est.

Sono contraria alle emozioni

Oggi ho fatto un viaggio in treno, lento e sporco, perché a Milano è festa e tutti partivano e non c’era posto sui treni migliori e ho preso un vecchio interregionale, che adesso si chiama regionale veloce, ma è lento e sporco come l’interregionale vecchio.

Oggi ho fatto un viaggio in treno e leggevo questo romanzo di un autore che amo e lui dice proprio le cose che io ho sempre immaginato dicesse o pensasse l’uomo con cui avrei passato tutta la vita e le dice come le avrei dette io e leggevo, nel treno lento e sporco, questa cosa sulle emozioni in cui il personaggio dice che lui subisce le emozioni, non le controlla, non riesce ad attraversare la strada perché travolto dal camion delle emozioni, come in un incrocio senza semafori.

E io annuivo, dicevo sì, sei proprio come me, poi ho ricevuto queste due telefonate con notizie non belle e a un certo punto ero di nuovo al centro dell’incrocio, con tutte queste emozioni che sfrecciavano e c’era la disperazione, la nostalgia, la rabbia, la rassegnazione, la delusione, la fatica. Allora ho pensato che a volte le cose ti succedono mentre le leggi, che le parole sono segnali, ma solo se cerchiamo segnali in ogni cosa. Ho pensato che c’è sempre qualche coincidenza che ti fa credere a un disegno più grande e quella casuale coincidenza è poi la cosa più importante, che ti fa credere che era destino, che non poteva che andare così, che alla fine non dipende tutto da te.

Quindi sono qui, mutuo, affitto, Milano, Padova, lavori finiti, lavori da cercare, debiti, entusiasmo, solitudine, un gatto, amici, ricordi, ricordi e fottuti ricordi, paura, birra in frigo, la tazzina di caffè in mano, il rimmel colato per un pianto consolatorio, il futuro, i progetti e il mio camion di emozioni che mi schiaccia, mi uccide e, mentre mi ammazza, mi fa sentire viva.

Non ha nemmeno più importanza

Vivo una situazione di seminomadismo perenne, spostandomi in continuazione da A a B a C a D e poi di nuovo A.
Cambio città all’occorrenza, molto spesso fuggo, a volte mi avvicino, mi cerco, mi aspetto.
Ho comprato casa e poi l’ho abbandonata per andare in affitto in un’altra città e dovrò rimetterla in vendita oppure decidere cosa sarà. Adesso sono lì e riparto da zero e ricomincio e vado avanti.
Sono tornata per qualche giorno a Padova, perché ho ancora il gatto da sistemare e gli scatoloni da riempire e gli armadi da svuotare. Mi sono accorta che non avevamo mai fatto mettere la targhetta con i nostri cognomi sul citofono e l’adesivo che avevamo attaccato sopra il nome della vecchia proprietaria era caduto via, lavato dalla pioggia.
Mi sono accorta che so vivere solo in questa precarietà, in questa perenne imprecisione, senza mai chiudere i cerchi, senza mai lasciare un posto per sempre, seminomade, girando in tondo, allargando il cerchio, aggiungendo oasi in cui ripararmi prima di ripartire.
Ho stampato un pezzo di carta con il mio cognome, l’ho attaccato con lo scotch al citofono. Se qualcuno dovesse suonare, probabilmente non troverà nessuno.
Ho finito tutti i sensi di colpa. Siamo stati bravi a dividere il mio e il tuo.
Ci sono delle crepe nei muri, ma sono strutturali. La struttura regge e il passato non la butta giù.
Non lo so se un giorno sarò capace di fermarmi. Forse succederà senza pensarci. Per il momento ho abbastanza scotch per attaccare il mio nome su tante porte ancora, lontane o vicine, non ha nemmeno più importanza.

La nuova prospettiva

Stamattina guardavo un quadro e mi è tornato in mente questo amico. Non era un amico di quelli che dai, stasera usciamo!, di quelli proprio che vedi spesso, che non li chiami più perché vi scrivete con whatzapp. Era uno che conoscevo, da anni, con cui avevo passato il capodanno insieme, che era amico di mio fratello, che incontravo spesso sul treno per Venezia, che avevo visto, qualche volta, in piazza a bere spritz.

Guardavo questo quadro e pensavo che lui, cazzo, era bravo, che i suoi quadri mi piacevano, che era un tipo originale, di quelli che quando gli parli ti trattano con intimità, che non è da tutti, non da me che sono sempre riservata, all’inizio, e che nascondo la timidezza dietro l’aggressività. Pensavo che era uno entusiasta e triste, che l’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che gli mancava un sacco lei, una lei che credo di non aver mai visto, però lui, con quella intimità lì, mi ha detto che lui voleva essere innamorato e io mica l’ho capito quella sera lì, mica ho capito davvero quello che mi raccontava dell’amore che massacra, mi sembrava solo uno che aveva bevuto troppo.

Qualche mese fa è caduto dal balcone e dicono che si è buttato e altri dicono che è inciampato.

È caduto e ce l’hanno detto e noi siamo rimasti tutti senza parole, perché lui era uno bravo, uno col talento, ma era troppo entusiasta e troppo triste. Forse. O forse no, forse cadiamo tutti senza un motivo, forse succede a chiunque di inciampare. Forse solo alcuni di noi, quelli col talento, vogliono così tanto essere innamorati da raccontarlo a una ragazza timida e aggressiva che vedi solo ogni tanto.

Si è buttato dicono. Oppure, dicono, è caduto.

Forse stava solo cercando una nuova prospettiva, per dipingere meglio quella cosa che esplode dentro e noi non vediamo e poi la capiamo tardi e ci sentiamo impotenti e fragili.

La Panda scassata

L’altra sera, quando è arrivato il freddo, Elena mi ha scritto oh, dai, vieni a bere uno spritz, ché c’è un’amica che era con me in Erasmus e forse te la ricordi, dai, vieni.

E io figurati se mi ricordo le amiche sue che erano in Erasmus con lei, che ci sono stata una settimana a trovarla, a Lisbona, ed era il 2004 e non ricordo nemmeno quelli che erano in Erasmus con me, cioè, alcuni li ricordo, ma mica tutti, e comunque vado.

L’altra sera, quando è arrivato il freddo, ci siamo sedute in piazza, perché a Padova, nel Veneto, si sta in piazza, anche se fa freddo, le osterie sono piccole, non sono i bar o i locali di Milano, sono posti stretti e pieni di vino e la gente prende il bicchiere e sta in piedi o si siede ai tavolini, ed è arrivato il freddo, ma in piazza c’erano ancora i tavolini e noi ci siamo sedute a bere, io lo spritz e loro il prosecco.

Allora, l’amica di Elena che era in Erasmus con lei, che non ricordavo, come non ricordo tante persone, a volte anche quelle a cui ho voluto bene e che forse rivedrei volentieri, l’amica di Elena inizia a raccontare cos’è successo a quello e cos’è successo all’altro.

E poi parlano di questo svedese, con un nome tipo Oiken, Oirken, Orkien, che avevo anche memorizzato e poi ho dimenticato, ché il cervello registra e dimentica, è la miserabile vita e non possiamo farci nulla.

Oiken era una montagna bionda, proprio svedese svedese, e lui a Lisbona era come un pinguino al Cairo, spiccava, era fuori contesto, era diverso. Allora lo scippavano sempre, lo truffavano, gli facevano scherzi, perché i portoghesi sono così, gente spiritosa, sono come i napoletani, ma con meno sole, più vento in testa e più fado nel cuore.

Un giorno un amico siciliano presta la sua Panda scassatissima a Oiken, la Panda con cui era arrivato dall’Italia, ed era un catorcio, ma voi lo ricordate il valore inestimabile di una Panda scassata in Erasmus, a vent’anni? E Oiken poi torna a casa, la mattina dopo, disperato, perché gli hanno rubato la Panda. A lui rubavano tutto.

E poi il siciliano rientra con tutti i suoi bagagli, senza Panda, e l’Erasmus finisce e si salutano tutti e Oiken, Orkien se ne torna al suo paese.

E poi l’amica dice, mentre faceva freddo ed eravamo al secondo spritz io e al secondo prosecco loro, che due anni dopo, il siciliano riceve una chiamata, a casa dei suoi, dalla polizia portoghese e sembra che avessero trovato la sua auto, che era rimasta parcheggiata due anni dove l’aveva lasciata quella sera Oiken, che era svedese e, oltre a essere una montagna bionda, beveva come una spugna e quella sera non era stato derubato, non aveva ritrovato l’auto perché era così sbronzo da non ricordare dove l’aveva parcheggiata. E la Panda era lì e la polizia comunicava che stava per essere demolita, dopo due anni.

Penso che, passata l’incazzatura, il siciliano abbia riso molto della cosa, come abbiamo riso noi, come ho riso io, anche se faceva freddo in piazza.

Perché le cose succedono e a volte non sono come sembrano, sono più stupide, più semplici e più divertenti e, con il senno di poi, vale la pena di averle vissute per raccontarcele.

Io non vedo da tempo i miei compagni dell’Erasmus, a volte mi dico che non li rivedrò mai, ma tutti i vent’anni mi sembrano la stessa storia, meravigliosa e facile, soprattutto quando te la raccontano con un finale diverso, più allegro e più leggero, al secondo spritz.

Bisogna fare cose per non pensare cose

Ho tagliato i capelli.

Sono stata a Barcellona a fare un test drive della nuova DS4 Citroën (e le persone che erano con me in auto sono ancora quasi tutte vive), ho dormito, ho bevuto sulla spiaggia al tramonto, ho scritto su diari di carta, ho sorriso, ho riso.

Domenica 22 maggio, alle ore 21.00, all’Auditorium San Michele di Selvazzano Dentro (PD), parlerò a un incontro del ciclo Maggio Saggio intitolato “Bla, bla, WEB!”, in cui discuteremo di web, social media, rivoluzione, gioventù e altre amenità. A seguire, il concerto dei Lava Lava Love.

Il 28 e 29 maggio sarò a Bologna per degli eventi organizzati con Stiletto Academy (se siete a Bologna e avete voglia di imparare a volteggiare sul tacco 12, scrivetemi).

Nel frattempo ricostruisco, ascolto molta musica, leggo molti libri (e non tutti fanno bene), cammino, parlo con gli sconosciuti, penso sempre al mare.

Cattive maestre

Tornata a casa, nel pomeriggio, ho incrociato nell’atrio del mio condominio l’insegnante di italiano che ho avuto in seconda superiore, nell’anno in cui mi sono trasferita a Padova.

Lei sosteneva che i voti alti che avevo preso in prima liceo a Napoli non erano meritati, perché quando scrivevo usavo troppo la fantasia.
E la fantasia non fa bene.

L’anno dopo mi cambiarono sezione e insegnante.
Non la vedevo da più di un decennio e mi è apparsa come una vecchia arcigna e infelice.

Deve aver vissuto tutta la vita usando pochissimo la fantasia.
E la vita non le ha fatto per niente bene.

Sfumature di grigio

Padova, Piazzale Stazione. Ore 19.00

Nero: -Può darmi un po’ di soldi signora?
Bianca: -Perché non vai a lavorare, invece di chiedere soldi per strada?
Nero: -Non posso lavorare, sono senza documenti.
Bianca: -Come senza documenti?
Nero: -Signora, vivo sotto i portici!
Bianca: -Allora perché non torni al tuo paese, invece di vivere in questa maniera?
Nero: -Se torno al mio paese mi ammazzano. E non perché ho fatto qualcosa di male…
Bianca: -Come no! Siete tutti qui per quello? Per quello non tornate nei vostri paesi?
Nero: -Signora, io non sono tutti. Io sono uno solo.
Un uomo.

E, alla fine, lei gli ha dato due euro.

Miracoli italiani

Nelle ultime 5 settimane, l’architetto e la dottoressa si sono trasferiti da Udine a Padova, hanno trovato lavoro, hanno cercato e -forse- trovato un bell’appartamento in affitto e sono, addirittura, dimagriti.

Domani, martedì 13 maggio, Dania lascerà il suo incarico occasionale per passare a un più dignitoso contratto a tempo determinato.

Visto il periodo storico, i traguardi dei nostri due eroi devono essere attribuiti alla nuova o alla vecchia legislatura?